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IL RE DELLE CRODE
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Il cielo di quel fresco mattino che quasi chiamava fuoco nella stufa era tinto di un azzurro carico. A farmi compagnia sull’orlo del monte c’erano il solenne silenzio della montagna fuori stagione, e poi l’attesa del dolce suono delle campane di San Simon e di quello potente e scandito dei bronzi della chiesa di Cencenighe. Era il tempo della vecchia estate ormai definitivamente sfiorita e del giovane autunno che stava muovendo i primi passi lungo la valle. Il verde dei larici iniziava ad essere stanco e le foglie dei faggi stavano per colorarsi del classico rosso cupo d’ottobre. Ero lì, in silenziosa contemplazione. Cercavo i dettagli del nuovo autunno, attendevo il roteare di una foglia che poi si sarebbe posata a terra, l’apparire sempre più tardo del sole sopra la lunga dorsale del Pelsa. Ammiravo la valle che si apriva innanzi a me, e poi mi sono voltato verso nord ovest cercando un nuovo orizzonte. È stato in quel momento che l’ho visto, ad una trentina di metri di distanza, un po’ più in alto di me, sopra un piccolo colle. Immobile, lo sguardo attento e curioso, i muscoli tesi, nervosi, pronti allo scatto. Il re delle crode mi stava osservando con la giusta diffidenza, e chissà da quanto tempo mi stava guardando da quel pulpito ricoperto d’erba. Era un camoscio maschio, all’apparenza in là con gli anni, al massimo della sua stazza. Fiero, con il corpo in carne in vista dell’inverno che sarebbe arrivato improvviso quando la prima neve sarebbe comparsa sulle cime. Ho tirato fuori lo smartphone per tentare di immortalarlo, ma lui, al movimento di inquadrarlo, se n’è andato immediatamente. Così sono ritornato ad ammirare la valle che si stava tingendo d’autunno e poi ho guardato nuovamente in direzione di quel pulpito erboso. Era ritornato, questa volta posizionato di fianco. Vedevo il manto scuro, la sua classica postura un po’ inclinata in avanti, la forte muscolatura delle cosce posteriori. Elegante, nel suo sguardo si leggeva la montagna, con i ripidi costoni e i dirupati canaloni che scendono verticali e ombrosi. In quegli occhi attenti si scorgeva la potenza del suo cuore da duecento battiti al minuto, il coraggio che gli permettava di muoversi con scioltezza sul filo di certi abissi che tolgono il fiato. Chissà a cosa pensava mentre fissava con attenzione la mia immobilità. Io quel giorno cercavo le prime tracce dell’autunno, lui probabilmente era già proiettato al lungo inverno, alla neve e al cibo da trovare. Poi, alcuni minuti più tardi abbandonò il pulpito erboso e si dileguò seguendo il filo dello strapiombo. Dopo qualche istante mi mossi anch’io raggiungendo il punto in cui l’intera Valle del Biois si apriva innanzi a me. Lì, dove si apre un baratro di erba ingiallita e larici antichi che da sempre lottano contro il vento, potei ammirare la forza, il colpo d’occhio e l’agilità dei camosci. Erano cinque, aggrappati a quell’erba infida e a qualche sasso affiorante, si muovevano con disinvoltura su quel prato verticale che sprofonda ad imbuto fino a raggiungere la vecchia strada che sale verso Vallada. C’era tutta la montagna in loro, e in me una sana invidia per la loro libertà e prestanza fisica. Quel canalone l’avrei salito impiegando oltre un’ora e con grande difficoltà, e forse avrei dovuto pure desistere. Loro impiegavano pochi minuti in assoluta scioltezza. Stettero lì per qualche istante, in perfetto equilibrio sfidando la verticalità di quel canalone severo, e poi con tre balzi salirono in alto fino a scomparire dalla mia vista.
Per me era arrivato il tempo di ritornare a vivere quell’inizio autunno mentre il re delle crode correva incontro alla sua libertà.
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