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L’ADDIO AL CELIBATO
AUDIO
Aveva sempre piovuto durante quell’autunno di venticinque anni fa, senza smettere mai, nemmeno per un giorno. Era stato un lungo tempo di nuvole basse, umidità feroce e alvei di torrenti e fiumi sempre colmi d’acqua fino all’orlo e in uno di quei giorni grigi mio fratello aveva pronunciato le fatidiche due parole; me maride, ovvero mi sposo. Cerimonia prevista ai primi di dicembre, classico e doveroso addio al celibato un paio di settimane prima, che occorreva un po’ di tempo per riprendersi perfettamente da una festa che si preannunciava parecchio impegnativa. Quel sabato mattina pioveva a dirotto, il Piave ringhiava rabbioso e tutto era pronto per la partenza da Belluno in direzione di San Tomaso. Dopo pranzo pioveva ancora di più e lungo la 203 c’erano camion ed escavatori che lavoravano alacremente per difendere la strada dalle acque ora furiose del Cordevole. A San Tomaso pioveva, ovviamente, e bagnati fradici dopo aver scaricato tutto il necessario per la festa, abbiamo acceso cucina economica e fornel. Aldilà dei vetri un orizzonte grigio scuro, il Pelsa avvolto da pesanti nuvole e i larici stanchi ormai colorati di arancione, preludio del lungo sonno invernale. In cucina e nella stua, invece, un’atmosfera d’altri tempi già vissuta. Il calore potente di legna che asciugava uomini e mura e ricordi che fioccavano come quella neve di novembre che scendeva fitta dai 1300 metri in su. Mentre il buio stava scendendo sulla valle gli amici avevano iniziato ad arrivare. Alcuni avevano sfidato i passi già innevati, altri raccontavano di torrenti in piena e di pioggia sempre più battente. Così finalmente la festa ebbe inizio. Battute, scherzi, salami affettati e bottiglie che iniziavano a svuotarsi mentre il Biois si stava mangiando un pezzo di strada fra Canale e Vallada. Qualcuno talvolta usciva di casa, sfidando la pioggia ora torrenziale, per recarsi dietro casa. Dopo qualche minuto era rientro con il viso rilassato e nuova energia utile a continuare la festa; la pioggia ora imponente, in pochi istanti cancellava il motivo che spingeva ad uscire sfidando il maltempo. Il mio ruolo era quello di fuochista e guardia del fuoco, e pure di seppur discreto vigilantes che doveva assicurare l’incolumità degli uomini e della casa. Un ruolo di responsabilità che ho svolto fino a quando, l’intera compagnia si è improvvisamente dileguata. Ho visto i fari di tre auto che si allontanavano bucando la nebbia novembrina, senza sapere che una delle tre auto era la mia. L’avevo scoperto con orrore poco più tardi, quando avevo notato la mancanza delle chiavi. Fortunatamente qualcuno era rimasto sobrio e quella provvidenziale sobrietà aveva eliminato quasi ogni sorta di preoccupazione. Ero rimasto solo in quel silenzio autunnale, con un primordiale telefonino in mano. Alimentavo il fuoco nella cucina economica, spedivo sms a caso a persone a me ignote presenti nella rubrica e ascoltavo la pioggia ricordando le belle notti vissute anni prima sul fornel. A notte inoltrata il ritorno dell’allegra compagnia che ormai mostrava qualche segno dì stanchezza. Nel dolce dormiveglia avevo sentito voci roche che salutavano, poi era rimasto il canto potente del Rù da Ghisel a farci compagnia durante quella piovosa e lunga notte di metà novembre. La domenica mattina ancora pioggia e nuvole pesanti a coprire il Pelsa, neve poco sopra il paese ed il ronfare tranquillo del festeggiato che aveva passato la notte sul divano. L’ho lasciato riposare in quell’atmosfera di fuoco morente e calore che iniziava a scemare e ho preso la strada di sempre che mi avrebbe condotto nella piccola città. L’auto profumava di vino e grappa, il Cordevole ruggiva cattivo a lato della strada e mille cascate scendevano dalle montagne. Dopo pranzo, papà era salito al paese a recuperare il festeggiato e gli avanzi della festa ponendo così fine a quell’evento memorabile. Poi era stata pioggia per altre due settimane, il giorno del matrimonio, invece, finalmente il cielo colorato di un azzurro perfetto.
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