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SERE D’AUTUNNO
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E adesso che era profondo autunno, loro erano lì, nella casa a mezza costa a guardare i larici che iniziavano a sfiorire come le loro vite. Vedevano morire un altro ottobre e accoglievano un nuovo novembre che avrebbe portato l’inverno nella valle. Ora, nelle uniche tre stanze riscaldate della casa c’erano un caldo forte di legna e i suoni consueti di quel vivere semplice. Il soffio ritmato e lento dei loro respiri sempre più pesanti, il tintinnare dei piatti e delle posate da lavare nel lavandino con i due rubinetti. C’era il tik tak perpetuo dell’orologio a pendolo a scandire quel tempo di faggi arrossati e di prati bianchi di brina al mattino, c’era il loro ricordare con poche parole la vita faticosa che avevano vissuto di fronte al Pelsa. Vecchi a nemmeno settant’anni, con mani e visi segnati dal lavoro e dai lunghi inverni di montagna. Spalle cadenti, schiene incurvate e andature sghembe che narravano i sacrifici vissuti per tirare avanti, per riuscire a combinare un pranzo e una cena e per poter comperare un prato o un pezzo di bosco. Ricordavano mentre il sole spariva ad ovest dietro la Cima di Pape, raccontavano mentre la minestra bolliva nella pentola blu e stava nascendo una nuova sera. Memorie di lavori e di guerra, di persone andate presto e di prati che ora erano boschi. Memorie di treni per la Svizzera e tradotte militari. E poi di versanti di montagne albanesi ricchi di cespugli spinosi e di alberi tagliati a novembre e di taie fatte scivolare lungo menador ghiacciati. Ricordi di campi coltivati a patate e fagioli e prati falciati sotto il sole potente d’inizio luglio, di legna accatastata pronta per un’altro infinito inverno. Mentre la minestra bolliva, ritornavano vivi i ricordi di quella quotidianità di un tempo, di quando c’erano forze in abbondanza e le giornate iniziavano a notte ancora profonda. Ricordavano il tepore della stalla e quel vento cattivo che faceva turbinare la neve ghiacciata mentre portavano el lat a caselo. Raccontavano della vacca più bella e dei maiali più grassi, di becarie di fine novembre con la neve che già copriva i tetti. Poi, quando si era fatto buio e la loro semplice cena era quasi pronta, uscivano a chiudere gli scuri e a prendere la legna per il mattino successivo. Ora la minestra fumava nei piatti con il bordo azzurro e nel frattempo pensavano alle cose da fare il giorno dopo. La spesa a Cencenighe, una visita all’ospedale di Agordo, la pensione da ritirare all’ufficio postale. Un giro in farmacia, per comprare una nuova medicina che andava ad allungare la lista dei farmaci appesa nel pensile della credenza. Poi i piatti nella vasca di plastica azzurra, l’acqua calda presa dalla vasca della cucina economica, la schiuma di detersivo e la voce del Colonnello Baroni che spiegava di campi di alta pressione e mari poco mossi localmente agitati. La sigla severa del TG1 induceva al silenzio e mentre fuori il buio si era fatto profondo, nella stua arrivavano le notizie dal mondo. Un venti minuti ad ascoltare cosa accadeva fuori della valle e aldilà dell’oceano, poi l’ultima legna nel fuoco e l’andare a letto alle venti e trenta precise. Pensieri, ricordi e forse qualche sogno durante quelle notti di quasi novembre, e poi il risveglio quando le stelle brillavano ancora nel cielo, all’ora in cui un tempo c’era la vacca da mungere. Avrebbero atteso il venire del giorno governando il fuoco, ricordando quel vivere passato che non avevano dimenticato.
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