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VITE DI MONTAGNA
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In quelle domeniche d’inverno arrivavo di fronte al Pelsa poco prima delle due del pomeriggio. C’era sempre la neve e la frazione era avvolta dal silenzio profondo della stagione fredda. Salutavo i nonni, stavo un po’ con loro e poi uscivo a giocare fino a quando la luce del precoce tramonto lambiva le case. Poi rientravo, mi scongelavo sul fornel e aspettavo la partenza per Belluno delle 18.30 circa. Tutto questo in un pomeriggio, in un tempo tutto sommato breve ma che allora mi sembrava eterno. Un tempo fondamentale, che mi permetteva di entrare per qualche ora in quel vivere così diverso da quello cittadino che vivevo durante la settimana. Lassù c’era il silenzio della neve e i visi anziani e stanchi di chi abitava in quelle case con i camini che fumavano da mattina a sera. C’era quel vivere apparentemente semplice che invece semplice non lo era affatto. Mentre lo stanco sole del pomeriggio si dirigeva verso la Cima di Pape io camminavo nei dintorni di casa. Osservavo i campi e gli orti coperti dalla neve, a volte scorgevo qualche uomo o qualche donna che usciva di casa per qualche attimo per prendere la legna. Guardavo le montagne che si preparavano ad un’altra fredda notte d’inverno e nel frattempo pensavo a quelle vite appartate, vissute da quella gente che era un tutt’uno con quella dura terra di montagna. Allora i nonni avevano ancora la vacca in stalla, così potevo bere il latte appena munto, dal sapore così diverso da quello acquistato all’Eurospar. Ma quel latte così buono e schiumoso, che successivamente veniva portato a caselo due volte al giorno, costava fatica. Occorreva possedere dei prati da falciare, comprati al tempo della loro gioventù a suon di sacrifici immani. Poi bisognava fare il fieno, e falciare e trasportare i fas de fen nel fienile era una gran fatica. E poi la vacca andava governata e soprattutto munta prima dell’alba e a pomeriggio inoltrato, ed era obbligatorio farlo. Anche la domenica. Tutto questo lavorare per ottenere burro e formaggio, prodotti che, visti in esposizione nel banco del supermercato, potevano sembrare banali e scontati e che invece non lo erano affatto. E poi dovevano riscaldarsi durante gli infiniti inverni di montagna, e al paese non c’era il metano. Non funzionava come in condominio a Belluno, dove ad ottobre arrivava il tecnico ad accendere la caldaia e fino ad aprile il caldo in casa era una cosa ovvia. Di fronte al Pelsa occorreva la legna, tanta legna. E per ottenerla dovevano lavorare per una buona parte dell’anno, ed era un’attività faticosa e a volte pure pericolosa. Anch’io, d’estate, avevo aiutato a stipare la legna per l’inverno, spingendo la carriola per trasportarla vicino casa, in modo che fosse a portata di mano. Erano vite vissute così sempre lavorando, anche quando gli anni iniziavano a farsi sentire. Un po’ perché la pensione, ottenuta dopo decenni di fatiche e pericoli, garantiva una vita dignitosa e niente più, e soprattutto perché loro avevano vissuto sempre così, e tutto quel lavorare era frutto del loro intimo rapporto con quella terra che in passato aveva dato loro da vivere. Alle 18.30 circa terminava la mia permanenza settimanale al paese. Salutavo i nonni, davo appuntamento alla domenica successiva e poi si partiva e si arrivava a Belluno a ora di cena. Alla sera, sotto le coperte, pensavo a loro lassù che già dormivano. Immaginavo la neve che ghiacciava e il fuoco che lentamente moriva. Immaginavo il silenzio potente delle notti d’inverno e le stelle lucenti che brillavano con forza sopra il Pelsa. E forse erano le stesse stelle che nel cielo di città apparivano tristi e stanche.
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