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CAPODANNO LONTANO
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Eravamo partiti appena calato il buio sulla piccola città che si stava preparando a festeggiare un ultimo dell’anno d’inizio anni ‘80. Freddo, un po’ di neve sui marciapiedi e sui tetti, luminarie al massimo e atmosfera di festa imminente. Qualcuno camminava velocemente verso casa, commesse guardavano impazienti l’orologio in attesa di chiudere le serrande del negozio. Auto si dirigevano verso taverne e casere preparate a festa. Noi stavamo facendo rotta verso San Tomaso, dove avremmo atteso l’arrivo dell’anno nuovo in compagnia dei nonni. La Ritmo viaggiava con circospezione sull’asfalto della 203 che scintillava alla luce dei fari. A La Muda era apparsa la sagoma dell’Agner carico di neve, e sopra la cima un mare di stelle che brillavano nel cielo puro di quella gelida sera d’inverno. Prima di approdare a San Tomaso avevamo fatto visita a parenti per il classico rituale degli auguri per un felice anno nuovo. Un gran freddo ci aveva accolto appena scesi dall’auto, e subito dopo un buon caldo di legna ci aveva dato il benvenuto. Lo scoppiettio dei pezzi di larice che bruciavano in una cucina economica bianca, il calore di una stua di montagna, le parole allegre pronunciate in quel dialetto che sapeva di casa. Poi i saluti e ancora una volta quel freddo feroce che ci attendeva fuori dalla porta. Un quarto d’ora più tardi eravamo immersi nel silenzio di ghiaccio di Colzaresè. Tutto era avvinto dal gelo e si sentiva sulla pelle il freddo tagliente delle limpide sere di profondo inverno. Neve ghiacciata, la fontana muta e luci stanche che illuminavano le finestre di quelle case abitate da anziani. Nella frazione che guarda il Pelsa il vivere caotico del mondo arrivava sfumato, e pure il Capodanno era vissuto in forma minore e forse più giusta. Niente eccessi, niente musiche e balli sfrenati. Solamente un attendere in compagnia la morte dell’anno vecchio e la nascita di quello nuovo. La casa ci aveva accolto con il suo forte calore di legna. Per una sera anche la cucina economica avrebbe fatto le ore piccole. Il fornel era rovente come il pasticcio che mamma aveva messo a scaldare sopra la piastra bollente della Focus. Una cena semplice, poi tutti nella stua foderata con le perline nuove. Io su ‘n fornel, gli altri seduti sul divano e su ‘n banca. La televisione in bianco e nero che trasmetteva un varietà carico di balletti e canzoni, le chiacchiere in dialetto e qualche risata mentre fuori stelle e neve scintillavano allegramente. Quell’atmosfera intima e calda favoriva il mio temporaneo assopirmi. Il calore del fornel entrava nella schiena e per qualche minuto le voci apparivano lontane. Attimi che sembravano eterni e che invece duravano pochi istanti. La pendola scandiva quel tempo lento di montagna e le lancette muovevano piano sul quadrante bianco, e nel frattempo scrocchiavano i bagigi e la Carrà proponeva l’ennesimo balletto. Poi la fatidica mezzanotte era stata annunciata dal botto del tappo della bottiglia di spumante aperta da papà. Il taglio del panettone, bicchieri e auguri dì rito e visi assonnati di persone non abituate a tirare notte fonda. Per una quindicina di minuti il risuonare lontano dei botti sparati ad Alleghe, poi nuovamente il profondo silenzio delle notti di gelo e stelle. Il freddo mi aveva risvegliato brevemente mentre raggiungevamo l’auto parcheggiata inte ‘nte la val. Attimi di neve e buio e parole sottovoce, e poi il sonno potente come quel gelo notturno che ghiacciava uomini e fontane. Mi ero svegliato a mattino inoltrato, c’era il sole e un anno nuovo tutto da vivere. Lassù al paese, invece, ardeva il primo fuoco di gennaio e chi era rimasto ascoltava i silenzi dell’infinito inverno di montagna.
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