Se venisse confermata l’aliquota al 30%, con la svalutazione del dollaro salirebbe, a prezzi reali, al 43,5%. Le imprese del Veneto pagano 42 volte in più di tasse dei giganti tecnologici
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Con l’avvicinarsi della scadenza del primo agosto, è necessario che Bruxelles continui a negoziare con Washington fino all’ultimo momento disponibile. Tuttavia, qualora non riuscisse a ottenere un accordo “ragionevole”, dovrà redigere un pacchetto di controdazi a cui aggiungere anche delle misure sanzionatorie nei confronti delle grandi aziende tecnologiche statunitensi.
Certo, stiamo parlando di azioni ritorsive, ma è il minimo che si possa fare per difendere anche le Pmi venete che hanno una grossa vocazione all’export. Sia chiaro: con l’introduzione di dazi al 30 per cento molti settori merceologici veneti (occhialeria, oro, vini, macchinari, mobili, etc.) vedrebbero crollare le vendite nel mercato statunitense. Per evitare tutto ciò, bisogna trovare un compromesso con Washington basato su un’aliquota generalizzata da applicare alle importazioni dall’UE al di sotto del 15 per cento. Se, invece, si andasse oltre, il danno economico per le imprese venete sarebbe insostenibile.
La CGIA, in questo momento così convulso, punta il dito contro le grandi holding americane che anche in Europa realizzano utili da capogiro, ma continuano a pagare le tasse nei paesi a fiscalità di vantaggio. Questa condotta, oltre a essere eticamente riprovevole, è diventata un cavallo di battaglia politico dell’Amministrazione Trump. A tal punto che nel G7 di Kananaskis (Canada) dello scorso mese di giugno, gli USA hanno imposto un accordo che esenta le proprie multinazionali dall’applicazione della Global minimum tax (Gmt). Una tassazione mondiale al 15 per cento in capo ai colossi con un fatturato superiore ai 750 milioni di euro all’anno che, invece, verrà applicata solo alle grandi holding dei paesi Ocse.
Con dazi reali al 43,5%, un costo fino a 4 miliardi l’anno
Se il Presidente Trump minaccia dazi al 30 per cento, che in realtà con la svalutazione del dollaro salirebbero a prezzi reali al 43,5 per cento, questa situazione potrebbe innescare una serie di effetti diretti sulle esportazioni venete a cui andrebbero sommati anche quelli indiretti – come l’aumento dell’incertezza dei mercati finanziari, un probabile incremento del costo di molte materie prime e il calo delle esportazioni verso gli USA di altri paesi europei che provocherebbe delle ricadute negative in capo ai nostri fornitori – in grado di provocare un danno economico al sistema produttivo veneto fino a 4 miliardi di euro all’anno. La stima è stata realizzata dall’Ufficio studi della CGIA.
Le imprese venete pagano 42 volte in più di tasse dei colossi del web
Per capire la differenza di trattamento che viene riservata ai grandi rispetto ai piccoli, l’Ufficio studi della CGIA ha realizzato un confronto tra tutte le imprese presenti in ciascuna delle 20 regioni italiane e i colossi del web che operano nel nostro Paese. Ebbene, da questa comparazione emerge che solo le attività economiche del Molise pagano meno tasse delle big tech presenti nel nostro Paese. Se nella regione più piccola del Mezzogiorno il gettito delle principali imposte pagate da tutte le aziende di quest’area geografica è pari a 203 milioni di euro, ricordiamo che nello stesso anno (2022) i giganti del Websoft hanno versato al fisco italiano complessivamente 206 milioni di euro. Nulla a che vedere con quanto pagano le imprese lombarde che, invece, danno all’erario 144,6 volte in più di quanto versano i colossi digitali, quelle laziali 60,4 volte in più e quelle venete 42,3 volte in più. In termini monetari le imprese ubicate nella nostra regione pagano 8,7 miliardi di euro in più (vedi Tab.2). Certo, quella appena richiamata è una comparazione che presenta una serie di limiti metodologici e non ha alcun rigore scientifico. Tuttavia, il ricorso sistematico all’elusione praticato negli anni ha incrementato questo gap, mettendo in evidenza in misura inequivocabile che, in Italia, alle multinazionali, in questo caso tecnologiche, continua a essere riservato un trattamento fiscale di grande “favore” che non può più essere accettato.