IL LARICE
AUDIO
L’ho osservato un giorno d’inizio primavera mentre camminavo sull’orlo del grande salto, il solitario larice. Il re dell’autunno che ad ottobre si veste d’oro, è cresciuto su di un micro terrazzino di roccia in pieno strapiombo; sotto di lui il vuoto, sopra il cielo. Il solitario guardiano “dela mè val” ha la corteccia rugosa e vissuta, indurita dal suo difficile passato. Chissà quante volte si è risvegliato a metà aprile e chissà quante volte ancora si è addormentato a fine novembre. Un vivere difficile ed affascinante il suo; con le radici ben salde conficcate nelle fessure della roccia e con il privilegio di poter ammirare tutto il grandioso panorama che gli si apre di fronte. Misterioso e inavvicinabile, forte e saggio; nemmeno il terribile vento di Vaia è riuscito a spezzarlo; l’ho trovato così in quel pomeriggio di fine marzo, come in quell’umido sabato mattina dopo la tempesta, impassibile e fiero come un capitano sulla prua del suo vascello. Gli alberi parlano e raccontano nella loro lingua, ed io quando vado a camminare in montagna, li sto ad ascoltare. Sono un dilettante del legno, un alunno di quel maestro chiamato bosco che sempre trova il tempo e la pazienza per insegnarmi qualcosa di nuovo. Il larice è il mio albero preferito, amo il suo innalzarsi dritto verso il cielo, mi commuove il suo colorarsi d’oro a fine ottobre e ogni anno saluto il suo risveglio dal lungo sonno invernale che avviene intorno alla metà di aprile. Quando capita di salire in montagna il larice è l’ultimo albero che si incontra, poi saranno solamente roccia ed erba magra. È lassù, dove l’aria è più fina, che crescono i larici “da opera”; “chei cresui sul magher”, che dopo tagliati, se vai ad osservare “le cresude”, diventi strabico e perdi il conto dei suoi anni d’età. È legno che sarà eterno, e le travi degli antichi tabià ne sono la testimonianza eloquente. È albero robusto che il vento fatica a sconfiggere; può farlo crescere “conaster”, difficilmente riesce ad atterrarlo. Solamente “quel vento” c’è riuscito, ma solo in quelle determinate zone dove si è sfiorata l’apocalisse. Quelle “cresude” raccontano le loro vite; ci indicano se hanno avuto “cibo” in abbondanza oppure se hanno patito un po’ la fame. A pochi metri dal solitario re che vive sulla verticale parete, vivono altri larici; quelli un po’ viziati; cresciuti su quel prato pianeggiante che un tempo era pascolo, “fora dal vent” e nutriti abbondantemente; e tutto questo benessere è stata pure la loro condanna. Erano nati sul comodo, su un terreno dove l’acqua non manca. Ma è stato un benessere effimero; alcuni di loro sono caduti all’inizio del 2021, al tempo della grande neve, alla ancora giovane età di circa cinquant’anni. Quel terreno così generoso, dopo averli nutriti in modo esagerato, alla fine li ha traditi; il loro fittone, ovvero la radice principale, non era scesa nel terreno roccioso di certi costoni; ha trovato quel morbido che non li ha fatti faticare in gioventù ma che alla fine li ha imbrogliati. Ora i larici, tre fratelli uniti dalla stessa sorte, si sono tramutati in pezzi da novantadue centimetri che raccontano il loro mezzo secolo di vita vissuta ammirando “la mè val”; ed io ascolto con attenzione il loro narrare, e lo ascolterò anche quando avverrà con voce di fuoco. E proverò affetto per loro quando tornerò a sognare sotto il Pelsa in quelle nuove e fredde sere d’inverno.
*****