********
LADRO DI RICORDI
AUDIO
Passeggiavo con calma durante quella umida sera di maggio. Attendevo la nuova pioggia in arrivo camminando sotto casa mentre la campana del Duomo di Belluno scandiva nove rintocchi. Le campane della Cattedrale hanno un suono solenne, un po’ cupo, proprio da Basilica, anche se minore. Camminavo lì, dove fra gli alberi si scorge la sagoma bianca del campanile dello Juvarra e dove le case, anzi, per meglio dire, le ville, sono tutte di recente costruzione. Nell’imbrunire osservavo e nel frattempo mi sentivo osservato. Qualcuno mi guardava dalle finestre e dai poggioli quasi fossi stato un ladro in ricognizione. Quella è zona in cui girano soldi, nella quale a volte risuonano allarmi e abbaiano cani feroci. In fondo ci stava questo guardarmi con sospetto mentre osservavo quelle recenti abitazioni, non potevano certo sapere che io qui ci sono cresciuto. Forse, non sapevano nemmeno che dove sorgono le loro belle case un tempo c’era una collina erbosa dalla cui sommità ci lanciavamo in discesa a cavallo di bob e cartoni. Semplice attività ludica svolta con sommo divertimento e assoluta noncuranza in materia di botte alla schiena. Ora questi allegri ricordi dormono sulla collina divenuta anch’essa ricordo. Mentre nasceva l’umida notte mi sono seduto su di una bella panchina illuminata da un raffinato lampione a boccia. Osservavo il cielo scuro e carico di nuvole pesanti e ricordavo quei tempi ormai lontani, poi un ringhio cattivo mi ha fatto improvvisamente riemergere dai miei pensieri. Aldilà delle inferriate di uno spesso cancello un possente cane da guardia sfogava la sua ira nei miei confronti. Intravedevo la sua sagoma possente e scura, notavo nitidamente il biancore dei suoi bianchi canini. Se quel cancello si fosse aperto sarei divenuto anch’io ricordo. Così mi sono alzato e mi sono incamminato alla ricerca di un luogo più tranquillo dove poter vivere in pace il morire del giorno. Una sibilante auto elettrica stava scendendo lungo una ripida rampa di garage che sembrava condurre negli inferi. Sicuramente il guidatore non poteva sapere che lì, dove avrebbe parcheggiato, un tempo c’era un prato che, per centellinati giorni all’anno, si trasformava nel nostro stadio di calcio. Accadeva durante gli ultimi giorni di scuola, dopo il primo sfalcio d’erba. Dopo una lunga e penosa trattativa, il mezzadro ci concedeva qualche giorno di gioco in quel prato perfettamente piano; potevamo giocare a calcio sull’erba vera, un sogno da sognare durante tutte le notti di fine primavera. Poi, pochi giorni più tardi, Mario dichiarava la fine delle partite, e il sogno svaniva. Sapevamo che andava a finire ineluttabilmente così, ma non riuscivamo ad abituarci al dolore quasi fisico provato dopo tale momento, dolore che ci toglieva l’allegria per almeno un pomeriggio. Da quel momento in poi sarebbe ritornato il severo asfalto di qualche cortile capace di grattuggiarci le ginocchia e, alla domenica, quello sporco di arance schiacciate del mercato ortofrutticolo di Via Feltre, nel quale una volta spostammo a mano una Prinz rossa, non verde, che impediva il regolare svolgimento della consueta partita festiva. Poi l’arrivo della pioggia sottile e ancora sguardi attenti da finestre e poggioli, ed io che acceleravo il passo per rientrare in fretta a casa. Con la coda dell’occhio li vedevo seguire con lo sguardo il mio rapido incedere, e certamente non potevano sapere che non ero un ladro di averi, ma di ricordi.
**********