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OCCHI
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I loro sguardi, immortalati nella foto della lapide, sono seri e malinconici, quasi tristi. Quegli occhi azzurri e grigi, che tanta montagna e tanta terra hanno visto, oggi vedono i cupi boschi del Pelsa e la severa parete nord del Civetta. Occhi azzurri di un uomo che decenni prima era stato bambino sui pascoli della Val Badia. Occhi color del cielo, dai quali saranno sgorgate lacrime di nostalgia durante le lunghe sere d’estate quando il buio scendeva dolcemente sulla valle. Occhi colorati di un celeste gentile che cozzava con i colori tetri e brulli dei monti della Grecia e dell’Albania. Occhi che avevano visto altri occhi chiudersi per sempre mentre intorno ringhiava forte il rumore delle mitraglie. Occhi onesti, di un uomo che era stato pastore, manovale e minatore. E poi marito e padre e agricoltore, falciatore e boscaiolo e perfino necroforo durante quell’inverno cattivo di metà anni ‘70. C’erano il freddo tagliente che rendeva di marmo la terra, e la fretta di mettere per sempre a riposo quelle donne e quegli uomini che in quei giorni di gelo e neve erano saliti in cielo. C’era pietà in quegli occhi che vedevano poveri resti risorgere da quella terra che, di lì a poco, avrebbe accolto altri paesani andati avanti. Occhi imperlati dal sudore di mille lavori, occhi che dal finestrino del treno avevano ammirato valli e laghi della Svizzera e vinto l’oscurità della lunga galleria scavata nel ventre del Pelsa. Occhi color del cielo limpido di quel giorno d’ottobre di trent’anni fa, occhi che si chiusero per sempre sul far di quel giorno sereno metà autunno. Appena un paio di metri più in là, altri occhi stanchi osservano i cupi boschi del Pelsa e le cime dei larici mossi dal vento. Occhi grigi di una donna di montagna nata di fronte al Civetta a 1300 metri di quota e poi scesa a vivere a quota mille al cospetto del Pelsa. Occhi di una donna che era stata contadina, falciatrice di prati in quota, moglie e madre, produttrice di scarpet e casalinga al tempo in cui il semplice fare il bucato era un lavoro lungo e faticoso. Occhi grigi come la roccia della nord del Civetta, quella che vedeva ad est quando rastrellava il prezioso fieno ricavato sulle ripide pale del Sasso Bianco. Occhi di una donna che sapeva battere la falce e cucire una gonna, maneggiare un ago e una roncola, mungere una vacca e coltivare i campi a patate e fagioli. Occhi grigi come quel cielo volubile di un ventoso fine marzo, occhi che si chiusero per sempre nel primo pomeriggio di quel terzultimo giorno del mese del risveglio della natura. Occhi azzurri e grigi, sempre aperti molto prima del sorgere del sole e avezzi al sonno quando si udivano i rintocchi lontani della campana che suonava l’Ave Maria. Occhi che hanno visto nascere nuove primavere e morire le brevi estati di montagna, che hanno ammirato i prodigi dell’autunno e visto scendere la prima neve preludio di infiniti inverni. Occhi azzurri e grigi, sguardi che si sono incrociati fino a quel tempo triste d’inizio anni ‘90, quando per loro l’autunno della vita è divenuto silente inverno. Occhi impressi in fotografie malinconiche, che spesso incrociano i miei durante certi dialoghi silenziosi in cui è solamente il vento che accarezza il camposanto, a parlare.
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