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LE MONTAGNE
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Le aveva sempre guardate le montagne, fin da quando era bambino, e da allora non aveva mai smesso. Quelle cime, quelle valli strette a volte severe, quelle pareti verticali che si innalzano da certi zoccoli coperti di mughi, non erano diventati abitudine. Amava avere innanzi a sé un orizzonte definito, non gli piacevano i grandi spazi senza sfondo propri delle infinite pianure e del mare. Quello di Belluno era un orizzonte ampio, sbarrato a nord dalle prime montagne dolomitiche. Schiara e Pelf, con la loro ragguardevole altezza e le pareti verticali di nuda roccia, gli ricordavano le montagne agordine che trovava quando saliva al paese. Alla loro sinistra, invece, le montagne che chiudevano la vista in direzione dell’Agordino, erano diverse, apparentemente anonime ma certamente non prive di fascino. Quando si inoltrava con l’auto lungo la Strada Madre, alzava sempre gli occhi per cercare quelle cime appartate e senza particolare gloria. Osservava il brusco innalzarsi dal fondovalle, seguiva con lo sguardo i ripidi canaloni, cercava le cenge lungo le quali, un tempo, si muovevano abili cacciatori di camosci. Pensava che le montagne, in fondo, fossero un po’ come le persone. Alcune dei capolavori di bellezza, attraenti e solari. Altre invece cupe e selvagge, apparentemente insignificanti, e quindi poco invitanti. Eppure, se solo si fosse riusciti ad andare oltre le apparenze, anche le montagne meno attraenti potevano svelare mille inaspettate meraviglie. La Pala Alta, ad esempio, era così. Montagna aspra, dura e un po’ anonima nel versante bellunese, severa e imponente nel versante che sovrasta la Val Cordevole. Quasi mille metri di dislivello da salire tutti d’un fiato, un mondo di loppe e roccette capace di regalare panorami incredibili. Dalla cima, una visuale completa delle affascinanti e misteriose valli che compongono il variegato mondo della Schiara e soprattutto la vista del Burel, quella altissima parete che precipita nell’oscurità della Val de Piero, sogno e incubo di molti alpinisti. Il Burel, la seconda parete più alta delle Dolomiti, battuta in sviluppo solo dal mitico spigolo nord dell’Agner. Il Burel, un abisso nascosto, invisibile ad occhi distratti. Una parete che, per ammirarla in tutta la sua severa imponenza, va cercata. Un grido di pietra che sale dai più profondi inferi di quella montagna che porta il più luminoso e gentile dei nomi. Sulla cima della Pala Alta era salito per la prima volta tanti anni prima, durante una calda giornata di fine di aprile. C’era il sole che scioglieva le ultime tracce di neve, e si ammirava un panorama carico di cime e valli aspre e selvagge dove circolano pochi uomini e molti camosci. Sì, le montagne, in fondo, erano davvero come le persone, andavano conosciute in profondità. Solamente allora avrebbero potuto svelare tutto il loro fascino. Quando arrivava a Cencenighe ritrovava le montagne più care, quelle che aveva salito svariate volte. Incombenti, potenti nel chiudere l’orizzonte, custodivano il paese situato all’incrocio delle valli e dei venti. Il paese era un po’ cambiato nel corso dei decenni, le montagne invece erano rimaste uguali. Gli piaceva l’idea di poter ammirare l’identico scenario vissuto dai suoi antenati. Quell’osservare gli riportava memorie di uomini che non c’erano più e di vite vissute in simbiosi con quella loro terra. Al tramonto, quando le montagne iniziavano il loro abbandonarsi alla notte nascente, ritornavano attimi lontani nel tempo, capaci di risvegliare ricordi che lo scorrere degli anni aveva reso più dolci. Al tempo del buio, la Stella del Pelsa, con la sua tenue luce avrebbe rischiarato la sua anima semplice che, nella quiete di un’altra notte agordina, si sarebbe lasciata cullare dalle sue amate montagne.
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