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ALBERI
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Il grande abete si trovava di fronte alla porta azzurra della cantina. Alto, imponente, solenne e severo. I suoi rami quasi sfioravano la finestra della stua che guarda il Pelsa. Ricordo le sue fronde colorate di un verde cupo, indifferenti allo scorrere perpetuo delle stagioni. Indifferenti perfino alla tanta neve che talvolta caricava quei rami che in quei frangenti piegavano verso il basso. Rammento la sua possente sagoma che si intravedeva nella semi oscurità di certe notti di Luna piena. Dal fornel che a volte utilizzavo come letto, vedevo l’inquietante muovere dei rami mossi dal vento notturno, e avevo paura. Il grande abete appariva vivo durante quelle lunghe notti, e solamente al mattino, quando la luce dell’alba iniziava ad illuminare la valle, quel timore svaniva e l’abete ritornava ad essere solamente un grande albero. Rammento tante calde notti di luglio, quando si dormiva con la finestra leggermente aperta e fra i grandi rami dell’abete dimorava la civetta. Ricordo il suo verso stridulo e malinconico, che secondo qualcuno annunciava disgrazie più o meno imminenti. La zoita cantava ogni notte il suo triste canto e ad ogni esposizione di una nuova epigrafe qualcuno diceva Eco, ste not pasade l’avea subià cativa, e ades le mort valgugn. Era sempre così, dicevano, la civetta cantava e qualcuno passava a miglior vita. Di fronte all’altra finestra, quella che guarda lo Spiz de Medodì che si erge maestoso all’orizzonte sud, c’era il ciliegio. Albero gentile, che insieme a tutti gli altri presenti in zona dava il nome alla frazione di San Tomaso che guarda il Pelsa. Ad aprile, i suoi fiori bianchi come l’ultima effimera neve che imbiancava le cime, annunciavano la primavera ormai a pochi passi. Ad inizio estate, poi, era bello cogliere le sue gustose ciliegie direttamente dalla finestra. D’inverno, la zaresera era assopita in un sonno di pietra e i suoi rami ricoperti di brina lucente, luccicavano alla misteriosa luce della Luna piena di gennaio. Durante quelle gelide domeniche sera, fra quei rami scorgevo il malinconico fascio luminoso dei fari della Ritmo che veniva a prenderci per riportarci a Belluno dopo aver fatto visita ai nonni. C’era malinconia in quegli attimi divenuti dolci ricordi, e in quei ricordi sempre vivi sono presenti anche i rami spogli del vecchio ciliegio. A trenta metri di distanza, nei pressi del cancello in legno dell’orto, due larici si slanciavano verso il cielo. Erano gli alberi più anziani cresciuti nei pressi della casa, ed erano i miei alberi preferiti. Mi affascinava il loro mutare durante le quattro stagioni. Il loro risveglio nei giorni che precedevano la festa di San Marco, sanciva l’inizio della tardiva primavera di montagna. Risuonava cupo il rombo delle valanghe che scendevano dal Pelsa, e nel frattempo i due larici si coloravano di un verde brillante. Mi piaceva la corteccia ruvida e spessa, ammiravo il tronco perfettamente dritto e quel ondeggiare lieve quando spirava il vento del tardo pomeriggio. Era ai primi di ottobre che i due larici, cresciuti insieme come inseparabili fratelli, iniziavano il loro vestirsi a festa. Ad ogni nostro ritorno domenicale trovavamo i rami sempre più colorati d’oro e l’apice di quella eleganza era raggiunta nei giorni in cui portavamo i fiori nuovi in cimitero. Poi, dopo l’estate di San Martino, quel giallo intenso virava verso l’arancione e al tempo della prima neve gli aghi cadevano a terra e aveva inizio il lungo e profondo sonno invernale che durava cinque mesi. Erano alberi che avevano accompagnato la vita di quegli avi che avevano scelto di vivere a mezza costa di fronte al Pelsa. Testimoni di un vivere semplice che oggi non esiste più.
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