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PENSIERI DI SETTEMBRE
AUDIO
Il Biois cantava con voce scura e potente e le nuvole erano pesanti e nere, gravide di pioggia. C’è la Morbiaca che saliva decisa lungo i ripidi versanti del Pelsa, c’erano i tuoni che risuonavano cupi fra le cime. L’autunno era ormai a pochi passi, lo si sentiva nell’aria e nel suono ovattato della campana che scandiva le ore e le mezze ore. Sarebbe stata sera inquieta di estate ormai andata, sarebbe stata notte vissuta ascoltando quel canto d’acqua che racconta storie di montagna. Appoggiato alla ringhiera del ponte di Veronetta attendevo quella pioggia imminente di quasi autunno, ascoltavo la musica d’acqua e mi lasciavo accarezzare dal vento freddo che scendeva da nord. Era un vento che raccontava settembre, che narrava di camini fumanti, parcheggi vuoti e nuovi e profondi silenzi. All’ora di cena sarebbe stato già buio e la campana grande avrebbe suonato l’Ave Maria alle infinite stelle che alle venti avrebbero addobbato il cielo. L’acqua scorreva come i ricordi di quei giorni di inizio settembre, che un tempo erano giorni di profonda malinconia. L’estate moriva ed io lasciavo le montagne. Ritornavo in città a vivere l’inizio dell’autunno e della scuola mentre al paese i faggi si apprestavano ad arrossire. Ritornavo ai piedi del Pelsa al sabato pomeriggio, quando il sole era prossimo ad iniziare il suo ormai sempre più precoce congedo. Vivevo sabati sera che sapevano di vento freddo uguale a quello che mi stava scompigliando i capelli, e poi di fuoco che rendeva roventi i cerchi della cucina economica. Vivevo notti nelle quali non c’era silenzio. Erano notti vive, con il sonno accompagnato dai rintocchi della campana che scandiva quel tempo settembrino e poi dai passi notturni di papà, che nel cuore di quelle lunghe notti d’inizio autunno si preparava alla battuta di caccia. Poi, il tramonto domenicale poneva la parola fine a quei giorni semplici e sempre troppo brevi. Si ripartiva dopo il tramonto e al nostro ritorno avremmo trovato i larici sempre più colorati d’oro. Partire e poi ritornare al paese, lo vivevo così quel tempo ormai lontano di inizio autunno. Un tempo che allora apprezzavo e che oggi amo con tutto me stesso. Amo la quiete e i cieli tersi di settembre, e poi certe nuvole che portano la pioggia e il calore del primo fuoco di stagione. Amo i silenzi delle strade vuote e il bramire potente dei cervi durante le notti di fine settembre. Amo il roteare delle foglie dei faggi che lente si posano a terra ed il colore rosso vivo delle amanite muscarie che a quel tempo popolano il sottobosco. Amo lo spogliarsi dei faggi che circondano Colaz; cadono le foglie di quei fagher che hanno la mia età e di sera si svela nuovamente la malinconica luce emessa dalla Stella del Pelsa. Mentre scendeva la sera ascoltavo il muovere inquieto dell’acqua di torrente che si preparava alla pioggia, sussurravo parole d’amore all’autunno ormai alle porte e ricordavo quel tempo semplice di allora, un tempo che mi ha formato e che mi ha reso l’uomo che sono. Poi le prime pesanti gocce e un vento umido che sibilava fra le case. Era arrivato il momento di rientrare a casa, a vivere la quiete di una tranquilla sera di un’altra estate ormai sfiorita
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