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PRIMI RICORDI DI MONTAGNA
AUDIO
La camera da letto era scarna, nemmeno un quadro o delle foto appese alle pareti. Due letti e un comò inizio anni ‘30, lucido, dall’aspetto austero, con una pesante lastra di marmo verde a coprire il ripiano e con i robusti cassettoni duri da aprire. Era stato il suono potente della campana grande a svegliarmi durante quell’alba di una domenica di fine ottobre dei primissimi anni ‘80. La campana aveva suonato alle sette in punto ed io mi ero svegliato quasi di soprassalto. Era stata notte bella, di sonno pesante, vissuta sotto al piumone e alle calde coperte che mamma aveva preparato per l’occasione. La sera precedente avevo faticato ad addormentarmi perché in camera mancava il buio assoluto. Il lampione a boccia, appeso ad un filo che sovrastava la strada, emetteva una malinconica luce bianca che riusciva ad entrare dalle finestre. Il vento di profondo autunno faceva oscillare il lampione, e la luce stanca che filtrava nella stanza creava ombre vive che si muovevano nella semi oscurità. L’ombra del comò si allungava fino a raggiungere la parete e talvolta risaliva lungo essa ed io seguivo quel movimento mentre ascoltavo il morire del fuoco. In cucina, quel fuoco agordino di fine ottobre emetteva gli ultimi scoppietii prima di trasformarsi in braci che si sarebbero spente a notte inoltrata. Mi ero addormentato pochi istanti dopo il rientro a casa di papà. I suoi passi notturni mi avevano rassicurato. Mi ero destato dal dormiveglia quando avevo sentito il girare della grossa chiave che apriva il portone d’entrata. Nel silenzio avevo udito il fruscio del giaccone che aveva appeso all’attaccapanni e poi il cigolio della portella della cucina economica. Infine, poco prima di chiudere gli occhi, avevo ascoltato i suoi passi dirigersi verso la sua stanza. Poi, un sonno profondo vissuto in quel letto perfetto. Un sonno interrotto bruscamente dal picchiare potente della campana che annunciava l’inizio di quella domenica. Avevo messo fuori la testa dalle calde coperte, c’era un freddo marcato e una luce pigra che entrava nella stanza. Mi ero alzato appena sfumati i rintocchi della campana ed ero andato in cucina, infreddolito e curioso di vivere quell’alba per me inedita. C’era un grande silenzio e l’esterno dei vetri della porta che dava sul terrazzo erano ornati da arabeschi di ghiaccio. Fuori, un panorama di quasi inverno. Il cielo tinto di blu scuro, i larici colorati d’oro, nessuna nuvola e poi il bianco della brina che copriva i tetti e l’asfalto della strada che conduce in valle del Biois. La casa aveva iniziato ad animarsi una mezz’ora più tardi e anche il fuoco acceso da papà, aveva ripreso vita. Calore di fuoco e del caffelatte fumante versato nella scodella blu, il mio cucchiaio da bambino e mamma che diceva che dopo pranzo saremmo andati nel cimitero aldilà del Cordevole e poi dai nonni a San Tomaso. Una breve passeggiata mentre il sole tentava di sciogliere quella brina tenace, il pranzo poco dopo mezzogiorno e il prepararsi a lasciare la casa. L’ultimo rantolo del fuoco e il soffiare del vento che accarezzava le tombe e poi il calore di legna e affetto nella casa dei nonni. Era stato un lungo attendere la sera e dopo l’arrivo del buio erano iniziati i consueti preparativi per il nostro ritorno a Belluno. Mentre passavamo sotto casa a Cencenighe mamma disse Scomenza a ese fret, vegnon su sabo che ven e dopo basta. Il sabato successivo c’era la prima prima neve sulle cime e l’autunno aveva iniziato il suo lungo e lento declino; durante il giorno fumavano i camini, il lungo inverno di montagna era ormai vicino.
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