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ARIA DA NEF
AUDIO
Nel silenzio di quel primo mattino d’inizio novembre avevo sentito il rumore del motore della Ritmo che si stava parcheggiando sotto casa. Faceva freddo a Cencenighe. Mamma si era alzata presto e aveva acceso subito il fuoco e preparato la colazione. Nel frattempo io guardavo dalla finestra un orizzonte che non c’era. Aldilà dei vetri l’autunno sembrava scomparso, ingoiato dall’inverno precoce che era entrato nella valle. Una coltre di nuvole grigie e basse copriva i boschi colorati e la strada era coperta da uno spesso strato di brina. Grigio e bianco, proprio come in certe giornate di pieno inverno. Dopo qualche minuto papà era entrato in cucina e si era messo accanto alla stufa. Era ritornato presto dalla caccia. Le aria da nef, aveva detto mentre le sue mani si riscaldavano sopra i cerchi ormai roventi. Le propio cambià el temp, stanot l’era fret, aveva detto la mamma mentre pensierosa guardava dalla finestra. Dopo la morte del fuoco era stata notte fredda. In quel fine settimana era comparsa l’umidità classica delle case poco abitate e un pò la si sentiva entrare nelle ossa. Ocor almancol trei dì de fok parchè se scalde i mur, aveva detto papà mentre metteva altra legna nel fuoco. Ero uscito in passeggiata con il cane mentre le campane annunciavano la Messa. Un silenzio ovattato mi aveva accolto e anche le campane avevano un suono sordo, assorbito dalla nebbia umida e leggera. Il freddo, complice l’umidità, mordeva, e la si respirava veramente quell’aria da neve. Il cane tirava mentre vivevo quel particolare silenzio che precede l’inizio di una nevicata. Non c’era nessuno in giro e i camini fumavano come in pieno dicembre. Guardavo con attenzione cercando di scorgere i primi fiocchi, ma le nuvole non erano ancora scese a lambire i tetti e non era ancora il momento della neve. A casa avevo trovato atmosfera da fine permanenza autunnale a Cencenighe. C’era aria di inverno, nel cimitero la tomba della nonna aveva i fiori nuovi e in casa ci sarebbe stato troppo freddo e il sabato avremmo avuto poco tempo per scaldare a sufficienza. En dì de chesti viene su a serà le acque, aveva detto papà mentre mamma sistemava i letti e terminava di mettere un po’ di ordine. Avevamo lasciato morire l’ultimo fuoco d’autunno e poi eravamo saliti a San Tomaso per pranzare dai nonni. Il calore potente del fornel che il nonno aveva acceso all’alba, ci aveva accolti e in quegli istanti aveva iniziato a nevicare. I fiocchi di neve, dapprima radi e poi sempre più fitti, erano stati immediatamente accolti dal terreno gelato. Al termine del pranzo l’atmosfera era quella classica dell’inverno, con i tetti, i prati e l’asfalto della Provinciale ricoperti da qualche centimetro di neve. Guardavo scendere i fiocchi ed ero stupito da quella nevicata così precoce. Osservavo il manto bianco che diventava sempre più spesso mentre nonni e genitori raccontavano vecchie nevicate d’inizio novembre. Verso le sedici, all’approssimarsi dell’imbrunire, era stato il rumore del versor a rompere per un attimo il silenzio della neve. Il lampeggiante giallo che si faceva largo nella nebbia, il suono cupo della lama che aveva sfiorato l’asfalto e poi nuovamente il silenzio della sera che stava per nascere. Alle 18, quando ormai era notte fonda e aveva smesso di nevicare, siamo partiti alla volta di Belluno. Fino a Mezcanal la Strada Madre era vestita d’inverno, a Listolade avevamo incontrato nuovamente l’autunno. C’erano tante stelle in cielo e papà aveva detto Lasù stanot el giaza. Era il 4 novembre.
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