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TEMPO DI NEVE
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E adesso che nevicava, anche loro si erano affacciati alla finestra per vedere scendere quella prima neve del nuovo inverno. Si erano alzati lentamente dalla banca del fornel, avevano messo un po’ di legna nella cucina economica e poi raggiunto i nipoti che stavano osservando con occhi meravigliati lo scendere copioso dei fiocchi. Gliela avevano promessa già al mattino quella neve così desiderata, dopo aver scrutato le nuvole che avevano chiuso l’orizzonte. Le aria da nef, avevano detto, e poi quel Staota el ne la peta che aveva acceso l’entusiasmo dei bambini. Ora che in cucina c’era il profumo della cena imminente e fuori la neve aveva coperto per intero la scalinata che saliva verso la Provinciale, erano contenti di non aver tradito quella promessa. Sui loro volti anziani e stanchi si era aperto mezzo sorriso, anche se poi quella neve già abbondante avrebbero dovuto spalarla. E spalare, ora che gli anni iniziavano ad essere tanti, era diventato un lavoro sempre più pesante. El fiocarà tuta not, avevano pensato mentre stavano apparecchiando la tavola, e poi ci sarebbe stato l’indomani, e quel pensiero li faceva divertire. I bambini sarebbero usciti con le slitte, avrebbero giocato a palle di neve e chissà quali altri giochi avrebbero inventato. Non avrebbero dato alcuna raccomandazione ai bambini, sarebbero stati liberi di divertirsi, gelarsi e bagnarsi, proprio come era accaduto a loro tanti decenni prima. Li avrebbero attesi in casa accanto al fornel, con abiti asciutti e un sorriso buono. Conoscevano bene la gioia della neve, che era la stessa felicità che avevano provato tanti anni prima, al tempo in cui la neve era pressoché l’unico gioco dell’inverno. Conoscevano il bruciore provocato dai diaolin e quel sollievo provato quando le dita incontravano il tepore del fuoco. La neve, pensavano, faceva bene alla terra dei campi e irrobustiva il fisico dei bambini. Prendere freddo nel modo giusto creava gli anticorpi utili a superare indenni i lunghi inverni di montagna. Loro di inverni ne avevano vissuti tanti, ed ora che erano tutti seduti a tavola e la minestra fumava nei piatti, raccontavano gli inverni rimasti scolpiti nella loro memoria. C’era stato quello del ‘29, con il freddo glaciale che aveva bloccato il vivere di quelle genti di montagna. Lassù, fra il Pelsa e il Sasso Bianco, era arrivata la notizia che persino l’acqua della laguna di Venezia si era ghiacciata. Loro, a quel tempo, erano ragazzini che avevano vissuto giorni interi seduti intorno al larin e sopra il fornel. Ricordavano che, a quelle temperature scese oltre i -20°, il freddo era tagliente come la lama di un affilato coltello e uscire di casa per qualche momento appena era stato un vero e proprio atto di coraggio. Poi, mentre fuori la neve continuava a scendere copiosa, si affacciò il ricordo dell’inverno del ‘51, della tanta neve caduta a febbraio. Neve che aveva sommerso i paesi e che aveva costretto gli uomini a grandi fatiche. C’era stato da spalare i tetti e le strade e la neve era stata davvero tanta da far paura. Raccontavano della grande valanga che aveva coperto la curva della Val. Avevano dovuto scavare una galleria in quella valanga, e la neve si era sciolta a primavera inoltrata, dopo il risveglio dei larici. Dopo cena erano andati subito a letto. I bambini si erano addormentati sognando la neve, i vecchi invece avevano ricordato i tanti inverni vissuti fra quelle montagne. Dopo qualche ora anche il fuoco si era abbandonato al sonno, mentre fuori nevicava ancora.
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