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TEMPO D’INVERNO (PENSIERI A CASO)
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Di quelle lontane domeniche d’inizio dicembre ricordo il freddo, le albe lente e i tramonti improvvisi. E poi i silenzi che vivevo di fronte al Pelsa carico della prima neve. Se penso a quei giorni gelidi e brevi d’inizio inverno sento sulla pelle il pizzicare delle dolcevite acriliche, il profumo di gomma degli stivali blu ed il frusciare della pesante giacca a vento rossa e nera. Di quei tempi di quasi Natale rammento i cieli grigi che chiamavano neve, le righe di luminarie intermittenti che adornavano i profili di tetti e terrazzi, e poi l’acqua gelata delle fontane e la neve sporca di ghiaino ammucchiata sotto i guardrail. Di quelle lunghe sere di montagna ricordo la porta azzurra della cantina e le infinite stelle sopra lo Spiz de Medodì. La luce fioca della lampadina e l’ingrigire dei salami appesi da poco ai bastoni. Rammento le mani di papà che tastavano quei salami costati freddo e fatica di fine novembre, ricordo il ronzio monotono del congelatore colmo fino al coperchio di carne nuova. Memoria dei sedili beige della Ritmo che correva lungo la 203 in direzione San Tomaso, ricordi della neve che si incontrava appena superato il Ponte dei Castei. Ricordi del cielo colorato di un azzurro stinto durante le giornate serene, presagio di notti gelide. Di quei corti pomeriggi di metà dicembre rammento lo scricchiolare del ghiaccio lungo la scalinata che conduceva di fronte alla porta della stalla, ricordo l’afferrare la ringhiera di legno che aiutava a mantenere l’equilibrio su quel ghiaccio severo e lucente. Poi la porta bianca della cucina, con i due vetri zigrinati sulla meta superiore, e il calore potente che ci accoglieva e ristorava appena entrati. La Fiesta che mi offriva la nonna, che poi diventavano due Fieste, il bicchiere di bianco che il nonno offriva a papà. Rammento il timido gocciolare del mezzogiorno della neve sul tetto del tabià, ricordo i ghiaccioli lunghi e puntuti che si formavano mentre la sera scendeva sulla valle. E poi il calore pesante sprigionato dal fornel, il manico nodoso e annerito della forca a due denti, quella che al mattino spingeva i fasìn all’interno della bocca vorace del fornel. Rammento quel caldo forte che entrava nella schiena e sgelava le dita gelate dai giochi con la neve, ricordo le parole in dialetto e i saluti di quando era giunta l’ora di fare ritorno in città. Profumo di minestra che bolliva sul gas mentre noi eravamo con le borse in mano pronti a partire. E poi, appena usciti fuori casa, il buio profondo delle sere d’inverno e aldilà della valle il brillare delle due Stelle del Pelsa. Quaranta minuti scarsi di viaggio, e poi quel sentore malinconico di fine settimana finito e profumo di un’altra minestra cucinata su di un gas di città. Novantesimo Minuto, la schedina del Tototocalcio, le quote popolari e il pensiero per loro rimasti lassù, che a quell’ora erano già a letto mentre il fuoco lentamente moriva. Parole, gesti e neve, freddo e silenzi. Calore di fuoco e di affetti, viaggi in macchina e profumo di salami nuovi. E poi stelle d’inverno e abiti pesanti, guanti e berretti e boschi addormentati.
Di quel tempo ormai andato è rimasto tutto, nulla è andato perduto.
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