LA FORZA DELLE RADICI
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Gennaio era stato gentile quel giorno; aveva regalato un tepore di quasi marzo e relegato il vento ad accarezzare le cime risparmiando il fondovalle. L’erba ingiallita dei prati e le montagne asciutte che reclamavano neve; era domenica di fine ferie natalizie un po’ malinconica, di cielo sereno e di rientro a casa di tanti sciatori. Ero sul monte quel pomeriggio ad aspettare l’ennesimo tramonto in compagnia del silenzio di gennaio; le Pale a sud, il Pelsa ad est e le foglie dei faggi che scricchiolavano sotto gli scarponi. Mentre attendevo lo spegnersi del giorno e l’accendersi delle stelle, ricordavo quel sabato di un dicembre senza neve di una quindicina di anni fa. Fu allora che, dopo un b30el po’ di tempo, rimisi piede da queste parti; era una mattina in cui il freddo era potente e sul bosco addormentato gravava una severa luce grigia. Passeggiavo nella “busa” ormai inselvatichita e pensavo ai nonni, ai sacrifici, alle fatiche affrontate per acquistare e poi curare quel pezzo di bosco e pascolo situato a pochi passi dal grande salto. Quella mattina di metà dicembre, insieme al grande freddo, si fece sentire anche la forza delle radici che in quei momenti raccontavano quelle vite faticose e oramai lontane. Ora, quindici anni dopo, ero ancora da queste parti insieme alla consapevolezza che se ero lì era per merito di quelli che avevano vissuto prima di me, che questo pezzo di montagna se l’erano dapprima sudato, poi curato e infine insegnato a chi è venuto dopo. Mentre il giorno scemava, la mente viaggiava all’indietro nel tempo; c’era la fine degli anni ’40, c’erano le braccia e le gambe forti dei nonni, la loro vita da ricostruire finita la guerra. C’erano i loro sogni e le loro speranze, le fatiche e i sacrifici, la Svizzera, i campi da coltivare e il fieno da fare. E poi i quintali di legna per affrontare quegli inverni che erano inverni per davvero. Il loro vivere ogni giorno con buon senso e coraggio, che sono le stesse doti che servono quando si sale una montagna. Qui non c’è solamente un monte dal quale si può ammirare Cencenighe e le cime che lo circondano; qui esiste una storia di vite passate che hanno incrociato la mia vita. In fondo siamo stati insieme pochi anni, ma questi sono bastati per far sì che le radici diventassero profonde e ben radicate come quelle dei larici cresciuti sulle cenge. Hanno insegnato con poche parole e tanti esempi; vite rette, oneste, vissute al tempo di quando non c’era bosco e sui prati crescevano le azole e la falce muoveva i suoi colpi ritmati ai primi di luglio. Al tempo del timore che un temporale potesse bagnare il fieno e del ritorno immediato in cantiere in Svizzera, nasceva una storia che poi è diventata anche la mia storia; e c’è l’orgoglio di non aver dimenticato nulla, di avere tentato, per quanto possibile, di conservare gli insegnamenti e i sacrifici compiuti da chi amato questo luogo prima di me. Non è stato sempre facile, ma è stato bellissimo.
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